Il Dirigibile Italia ed il Polo Nord

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Questa è una storia di altri tempi, fatta di onore, rivalità, coraggio, umanità, morte e speranza, ricerca scientifica e sperimentazione tecnologica.

E’ la storia di un gruppo di uomini che riesce a sopravvivere 48 giorni in mezzo al ghiaccio e al nulla, è la storia di uomini di varie nazionalità che si impegnano a portare soccorsi ai dispersi, è la storia di uomini che muoiono nel tentativo di salvarli, è la storia italiana di eroi che saranno trattati come detrattori dell’onor patrio per essere stati partecipi all’evento e non essersi comportati in maniera “fascista”.

L’obiettivo è di quelli che porteranno fama e gloria a tutti i partecipanti alla spedizione ed alla nazione natia, porre la bandiera italiana sul Polo Nord.

Il principale protagonista è il generale Umberto Nobile, ingegnere meccanico specializzato nella costruzione di dirigibili. E’ una sua creatura il dirigibile Norge ed italiana la costruzione dello stesso, commissionato dalla Norvegia per sorvolare il polo Nord. Il grande esploratore norvegese Roald Amundsen (scopritore qualche anno prima del polo Sud), ed il nostro generale partecipano alla spedizione che porterà il dirigibile, tra l’11 ed il 12 maggio 1926, a sorvolare per la prima volta l’apice nord della terra: in seguito, tra i due, sorgeranno polemiche e una sana inimicizia a causa del grande successo ottenuto dalla spedizione e dell’assegnazione dei meriti della stessa ai due esploratori.

Si intersecano in questo periodo più interessi: la comunità scientifica e la ricerca ed esplorazione del polo Nord, l’industria meccanica che si trova in espansione e ad un bivio, se puntare sullo sviluppo dei dirigibili oppure sulle nuove macchine volanti come aerei ed idrovolanti, la reputazione di una nazione agli occhi del mondo e l’aiuto offerto dallo sviluppo della comunicazione senza fili alle varie branche scientifiche interessate.

Il generale Nobile cerca di replicare la spedizione al polo Nord con mezzi e personale tutto italiano, chiedendo allo Stato la costruzione del suo nuovo modello di dirigibile, ma lo stato declina la richiesta perché non vuole investire in aeromobili; in realtà sia Mussolini che Italo Balbo, suo rivale in aria, non vedevano di buon grado la notorietà di cui godeva Nobile. Solo ed esclusivamente grazie ai fondi privati di alcuni industriali ed alla benedizione del pontefice, riesce ad ottenere un modello di dirigibile gemello del Norge ed una nave mercantile da adibire a nave appoggio: aveva chiesto anche due idrovolanti per eventuali emergenze, ma il ministro della Regia Aeronautica, Italo Balbo si oppose e gli concesse solo un piccolo distaccamento di alpini.

L’inizio, come potete immaginare, è tutto in salita con l’ostruzionismo dell’unica entità che, invece, lo dovrebbe appoggiare pienamente, lo stato fascista.

Il dirigibile viene opportunamente modificato con significative migliorie, sia nella struttura rinforzata sia nei materiali appositamente utilizzati per lo scopo (per il Norge, si era costruito il dirigibile con tutto quello che l’industria offriva al momento mentre per l’Italia, veniva ora sfruttata l’esperienza del generale associata all’uso di nuovi materiali).

Furono presi accordi con istituti scientifici italiani ed esteri che fornirono tutta la strumentazione: l’obiettivo era approfondire gli studi di geografia, di geofisica, di oceanografia, di meteorologia, fare esperimenti sul magnetismo terrestre e sulla trasmissione delle onde radio nell’atmosfera.

Terminate le modifiche al dirigibile, terminati i preparativi, caricate le attrezzature e ed i piani di volo, l’aeromobile è pronto a partire con a bordo 13 membri dell’equipaggio, 2 giornalisti e 3 scienziati (due fisici italiani ed un meteorologo svedese, compagno di Nobile nella precedente spedizione del Norge) e la mascotte della spedizione, l’inseparabile cagnetta del generale Nobile, Titina.

Si decolla dall’aeroporto di Ciampino, dove l’Italia è stato costruito, per arrivare in provincia di Milano da cui la spedizione partirà ufficialmente nella notte del 15 aprile 1928.

Il piano di volo è così programmato: giungere alla Baia dei Re, alle isole Svalbard in Norvegia, e poi effettuare cinque spedizioni sul circolo polare artico fino ad arrivare a far atterrare l’aeronave sul fatidico polo Nord. Durante tutto il periodo si faranno rilevamenti geografici e cartografici, in modo da determinare in maniera esatta le coordinate del polo Nord, si studieranno le derive dei ghiacciai, si faranno rilevamenti fisici sui gas alle basse temperature, si studieranno i comportamenti climatici ed i loro impatti sull’aeronave.

Prima di arrivare alla Baia dei Re, furono necessarie due soste tra rifornimento e riparazioni dovute ai danni provocati da forti grandinate che avevano danneggiato il rivestimento esterno, prima al confine tra Germania e Polonia, sulla costa del mar Baltico meridionale e poi in Norvegia. Giunsero alla Baia dei Re il 6 maggio del 1928. Da notare che la nave appoggio Città di Milano era partita con largo anticipo per arrivare all’appuntamento in tempo.

Durante questo periodo il dirigibile fu supportato dalle installazioni radio di bordo nella navigazione, sempre in collegamento con i comunicati meteorologici che tutte le stazioni austriache, tedesche, polacche, inviavano ed anche la posizione dell’aeronave da loro rilevata, aiutava l’equipaggio a trovare la rotta quando la visibilità era nulla per nebbia o maltempo prolungato. Questo servizio era di vitale importanza, in quanto l’esatta e tempestiva conoscenza delle condizioni meteorologiche che sovrastavano le zone da attraversare, da raggiungere o da esplorare faceva la differenza tra il successo o il fallimento dell’impresa, quindi era necessario conoscere tempestivamente le condizioni atmosferiche, la velocità dei venti, l’avanzare dei cicloni e questo era possibile solo ed esclusivamente con le radio trasmissioni.

“ A terra, disseminate un po’ dappertutto, di giorno, di notte, vegliano uomini e macchine, e lanciano nell’ignoto cielo, il sapiente, misterioso cinguettio che informa, consiglia, dirige. Nel cielo, oltre i noti orizzonti, oltre le elevatissime cime, tra lo scrosciar della grandine ed il saettare sinistro dei fulmini, avvolta nell’oscurità delle minacciose nubi danzanti, nella bianca aeronave intrepida vegliano, ancor più intrepidi altri uomini, con il cuore fermo, con gli occhi fissi alla mèta, e con l’orecchio all’ascolto non del rombo del tuono, ma del lieve, lontanissimo segnale apportatore di luce e tranquillità. ”

Descrizione: http://www.viaggipolari.it/wp-content/uploads/2013/01/Baia-del-Re-copy.jpg  Descrizione: http://www.viaggipolari.it/wp-content/uploads/2013/01/Umberto-Nobile.jpg

Un primato della spedizione è stato quello di aver sperimentato l’uso delle onde corte e di aver costantemente trasmesso e ricevuto comunicazioni dal Polo e altrove, verificando la propagazione a diverse ore del giorno e con varia illuminazione da parte del sole: nessuno era riuscito prima in questo, proprio a causa della lunghezza dell’onda radio utilizzata.

Il primo volo avvenne l’11 maggio 1928 e durò solo 8 ore, a causa delle avverse condizioni del tempo e della formazione di ghiaccio sui timoni.

Si ripeté il tentativo il 15 maggio e quel volo durò tre giorni, coprendo una distanza totale in aria di circa 4000Km: fu molto proficua dal punto di vista geografico in quanto confermò e negò l’esistenza di terre ed intere regioni, ed inoltre si sperimentò l’uso dello scandaglio acustico per il rilevamento della profondità del mare.

La terza spedizione del 24 maggio, avrebbe portato l’equipaggio del dirigibile a raggiungere il polo Nord e far sbarcare un pugno di uomini con tenda, strumentazione e cibo per effettuare rilevamenti sulla banchisa polare. Alle 00:24 del 24 maggio, l’Italia raggiunse il polo ma, a causa delle avverse condizioni atmosferiche, non fu possibile lasciare la squadra sul posto: fu però lanciata la croce di legno donata da Pio XI insieme alla bandiera italiana mentre un grammofono suonava alcune canzoni. Alle 02:20 iniziò la fase di rientro a dispetto di un vento contrario che ostacolava l’avanzare del dirigibile. Qui venne commesso l’errore che compromise la missione: il meteorologo della spedizione Malmgren, sconsigliò la rotta che il comandante aveva scelto, aggirare il vento contrario e allungare la rotta ma con sicurezza, e consigliò di tornare indietro verso la Baia dei Re, da cui erano arrivati, certo di trovare lungo la strada una zona di venti più calmi, ma le sue previsioni si rivelarono errate. Dopo 24 ore di burrasca e nebbia impenetrabile l’Italia aveva percorso meno della metà della distanza che ci si aspettava di percorrere, deviando verso est di parecchi km, facendo sbagliare completamente il calcolo della posizione. Strati di ghiaccio iniziarono a formarsi sulle eliche trasformandosi in proiettili che colpivano la copertura esterna quando si staccavano dalle pale; anche forzando i motori e raddoppiando il consumo di combustibile la velocità rimaneva molto bassa. Si decise allora di alzarsi di quota in modo da uscire dal banco di nebbia impenetrabile in cui si trovavano e cercando almeno una via di fuga visiva, e questo fu il secondo presunto errore del comandante: la variazione di altitudine causò uno sbalzo di pressione e temperatura interno all’aeronave con entrata in funzione delle valvole automatiche che regolavano il flusso di idrogeno che, prima fecero fuoriuscire il gas e poi, a causa della sua diminuzione, fecero perdere quota al dirigibile a causa del freddo, le stesse valvole che avrebbero dovuto immettere nuovo gas, rimasero bloccate, costringendo l’aeronave alla discesa forzata. Dopo alcuni tentativi di alleggerire l’Italia, la discesa si trasformò in caduta. Nobile prese la guida del timone e tentò un’estrema manovra per rendere meno disastroso l’urto con il pack dando l’ordine di spegnere i motori per evitare il pericolo di incendi dopo l’urto… la morte si avvicinava vestita di abbagliante candore bianco.

    

Un istante dopo, l’aeronave, che era fortemente impennata di prua (parte anteriore), colpiva con la navicella motrice di poppa (la coda, la parte posteriore), che si sconquassava. L’urto provocava un rimbalzo e l’aeronave s’abbatteva con la prua. Il vento e la velocità residua dei motori, non permisero  al dirigibile di accasciarsi sul pack: la navicella strisciò e questa, sfasciandosi, si aprì, lanciando uomini e contenuto sul ghiaccio. I dirigibile, improvvisamente alleggerito di qualche tonnellata, si risollevò e sparì tra le nuvole, portando nell’ignoto sette membri dell’equipaggio di cui non si seppe più nulla. Erano le 10:33 del 25 maggio 1928.

Tragedia!

Immedesimatevi negli uomini del dirigibile e provate a pensare cosa sia potuto loro passare nella testa in quel momento.

Doloranti e storditi, cercarono subito di soccorrere i feriti. Solo Biagi ed il Viglieri rimasero praticamente illesi ma, per alcuni, non andò così bene: viste le condizioni del generale Nobile, fu arrotolato in una coperta, in quanto si pensava stesse per morire. Steccarono in emergenza la gamba rotta di un compagno e salvarono la vita a Malmgren il quale, con la spalla lussata e roso dal rimorso della sua decisione e convinto di dover morire di fame e di freddo da li a poco, tentò di suicidarsi con la pistola ma fu prontamente disarmato. Solo un soldato non fu così fortunato nell’atterraggio e morì sul colpo.

Con freddezza glaciale, passatemi il gioco di parole, andarono a rovistare tra il materiale caduto a terra: tra le varie cose più o meno inservibili, numerosi oggetti utilissimi furono rinvenuti: la tenda, una coperta, vari strumenti scientifici, tre cronografi di precisione e tutti i viveri che erano stati preparati per l’atterraggio al polo Nord. C’erano scatole di biscotti e pemmicam (carne di manzo essiccata, frullata e mischiata con grasso e frutta secca in polvere, con la forma di una galletta), del cioccolato e del latte in polvere.

Nel frattempo il generale era rinvenuto e si riscontravano un braccio ed una gamba rotti ma, fortunatamente in salvo e non in pericolo di vita.

Rapido fu fatto il calcolo delle razioni di cibo: in totale contarono 130Kg di cibo che, con razioni di 200gr a testa giornaliere, portavano ad una prospettiva di vita di un paio di mesi.

Rincuorati dal materiale raccolto, un solo pensiero passò nella mente di tutti i superstiti: chiedere i soccorsi con la radio.

Mentre tutti gli altri attrezzavano un primo abbozzo di campo innalzando la tenda, il maresciallo Biagi, il marconista di bordo,  si mise subito alla ricerca: trovò tutti i ricevitori in onda lunga totalmente o semidistrutti, quasi tutte le valvole di ricambio intatte, l’apparecchio ad onda corta praticamente illeso e la sua cassettina con la radio di emergenza, che era atterrata insieme a lui a farle da materasso, chissà come e quando imbracciata, quasi illesa. Molte batterie ed accumulatori furono rinvenuti intatti ed anche dei vibratori manuali, che servivano ad alzare la tensione di alimentazione per il corretto funzionamento dei ricevitori.

Tornato al campo e data speranza ai superstiti, si mise subito ad allestire una stazione ricetrasmittente. Iniziò a srotolare un rotolo di filo elettrico e a distenderlo, operazione faticosa in quanto il pack, nella zona della collisione, era disastrato e si sprofondava nella neve. Una parte fu lasciata affondare in acqua, in modo da avere il collegamento di terra, necessario alla ricezione dei segnali radio e l’altra estremità collegata al ricevitore. Inforcate le cuffie e data alimentazione alla radio, Biagi si accorse subito che il ricevitore funzionava perfettamente ed era possibile ricevere le trasmissioni della “Città di Milano” ed altre stazioni. Nell’eventualità che un incidente fosse avvenuto, si erano stretti accordi per cui, al 55° minuto di ogni ora, la stazione base avrebbe dovuto contattare l’Italia sulle onde corte.

Erano passate tre ore dall’impatto col ghiaccio.

Era il momento di verificare il funzionamento della stazione trasmittente.

Dopo aver provveduto alla riparazione dei problemi più evidenti, si dovette costruire l’antenna: unendo tra di loro i tubi di alluminio che facevano parte dell’ossatura della navicella andata distrutta, si attrezzarono circa 7 metri di antenna che dovevano necessariamente essere montati in verticale. Il ghiaccio rovinato, la deriva del pack con i ghiacci in continuo movimento e la reale difficoltà nel fissarli al ghiaccio con i tiranti, diedero non poche complicazioni. La stazione trasmittente era attrezzata ed era funzionante, ma nessuno rispondeva agli SOS inviati. Si seppe poi, e quella fu colpa della “Città di Milano”, che la stazione base ascoltava solo sulle onde lunghe perché’ pensava che, su tre ricevitori almeno uno funzionasse, mentre trasmettevano su tutte le gamme d’onda. Sempre fu trasmesso comunque il segnale di SOS alle ore prestabilite. In realtà il giorno stesso della tragedia, molte nazioni si erano messe in moto per portare in salvo i naufraghi solo che, a causa delle errate supposizioni sul punto di impatto col ghiaccio, le ricognizioni furono effettuate su un tratto di pack sbagliato.

Intanto la deriva dei ghiacci portava i superstiti sempre più lontano dal luogo dove la nave appoggio supponeva fossero caduti per cui, nella disperazione dei giorni che passavano, ci si attaccava sempre di più alla radio, come un naufrago ad un salvagente. Altra grave preoccupazione, oltre al freddo ed alla fame, era che le batterie e gli accumulatori si scaricassero prima di assicurarsi i soccorsi.

Il 28 di maggio ebbero un fortunoso incontro, con un orso.

Non aveva cattive intenzioni e sembrava curiosare e divertirsi con i resti della navicella rimasta sul pack. Da un primo impatto iniziale in cui i naufraghi pensarono solo a difendersi, si passò al contrattacco e si uccise l’orso con due colpi di pistola. Senza indugi il bestione fu scuoiato e fatto a pezzi, fu messa della neve dentro una latta svuotata di benzina e fu messa sul fuoco la carne a pezzi. Senza sale e senza condimenti la carne era dura e senza sapore mentre il brodo era nauseante, ma almeno avevano un po’ di scorte per andare avanti. La carne cruda fu impossibile da mangiare e diede reazioni allergiche per cui, si continuò a mangiarla lessa.

Il 29 maggio tre persone decisero di partire a piedi a cercare la terraferma e, nonostante le nuove razioni di viveri dovute all’orso e la notizia che la macchina dei soccorsi era in moto, furono irremovibili.

La situazione si fece preoccupante anche perché’ cominciarono a capire il motivo della deriva del pack su cui si trovavano: non era, come pensavano, la corrente del Golfo a spingerli, ma il vento che sferzava sul ghiaccio per cui, anche se si muovevano, rimanevano praticamente sempre nello stesso punto, con l’aggravante che il continuo urtare tra i ghiacci, assottigliava sempre di più il loro fazzoletto di solidità.

La sera del 3 giugno, nell’ascolto notturno della stazione di Roma, Biagi ascoltò che un radioamatore russo aveva raccolto il segnale di soccorso del dirigibile Italia ed era stato dato ordine alle stazioni russe di prestare molta attenzione.

Finalmente un raggio di sole penetrava le tenebre che avvolgevano i dispersi.

Per molti giorni furono mandate le coordinate in cui si trovavano i superstiti fino a che, finalmente, in uno scambio di informazioni mirata, la nave base ricevette da Biagi la propria matricola di soldato, espressamente richiesta nel riconoscimento, in quanto credevano fosse un millantatore che faceva il burlone: era intenzione del comando italiano che i primi a soccorrere i dispersi fossero proprio gli italiani.

L’attenzione dei nostri eroi fu presa dalla necessità di rendere visibile il loro accampamento dall’alto. Con l’anilina rossa sopravvissuta all’impatto ed utilizzata precedentemente nelle rivelazioni altimetriche, dipinsero la tenda di rosso e poi, dopo aver sistemato una parte della superficie ghiacciata rendendola meno aspra, dipinsero strisce di rosso sulla stessa in modo da creare una pista di atterraggio.

Una volta, a loro insaputa, furono ad appena 7Km dalla coste e scorsero due ombre che scambiarono per due renne, mentre in realtà erano due alpini che si erano avventurati sulla banchisa in slitta alla ricerca dei superstiti; nonostante la vicinanza e l’errore di interpretazione, non si avviarono verso la terraferma per non abbandonare i feriti al loro destino.

Durante la ricerca di reperti del disastro, Biagi trovò una piccola macchina fotografica, una Pathè baby, con la quale iniziò a filmare parte della vita quotidiana, salvando la pellicola cinematografica dalla certa sorte di combustibile, nascondendola a tutti facendo finta di filmare solo per passare il tempo e fare il burlone: sono ancora disponibili alcuni frammenti di pellicola sopravvissuti.

 

I soccorsi arrivarono ma furono una delusione. Per più giorni gli aeroplani sorvolarono la tenda rossa senza riuscire a scorgere i dispersi. Le cause erano principalmente due e misero a dura prova il morale degli italiani: il pack su cui erano galleggiava e si muoveva in continuazione ma, soprattutto il riflesso del sole sul ghiaccio rendeva impossibile scorgere la tenda rossa, gli stendardi messi sul filo dell’antenna e gli uomini che non finivano di sbracciarsi ed urlare quando gli aeroplani sorvolavano la loro zona. I giorni scorrevano fra l’alternanza di speranze e delusioni ed in aggiunta, iniziava a farsi avanti la paura che gli accumulatori esalassero l’ultimo respiro da lì a poco.

Ancora una volta venne in soccorso la radio.

Si chiese alla stazione base di montare sull’aeroplano italiano da poco arrivato nella zona dei soccorsi, una ricetrasmittente simile a quella che avevano i naufraghi, con la quale guidare i piloti verso la tenda rossa. Fu creato anche un codice non convenzionale, in bolognese stretto, per far in modo che nessuno arrivasse prima degli italiani a salvare i connazionali. Finalmente il giorno dopo, furono localizzati e, cosa ironica, anche gli svedesi riuscirono poche ore dopo, a trovarli. Gli italiani avevano buttato pacchi di viveri, accumulatori per la ricetrasmittente e fumogeni per segnalare la loro posizione. Per due giorni ricevettero viveri e materiali per continuare a sopravvivere fino all’arrivo dei soccorsi, tra cui scarpe, coperte, un fucile, alcolici e sigarette.

Il 24 era previsto l’atterraggio sul ghiaccio dell’apparecchio svedese di Lundborg. Si sistemò di nuovo la pista di atterraggio compattando il più possibile ghiaccio e neve ed il giorno dopo il famoso aviatore atterrò sul pack alzando una leggera nuvola di neve.

Il suo ordine era di riportare indietro il generale Nobile l’unico che, secondo tutti, sarebbe riuscito a rintracciare la spedizione partita a piedi per trovare i soccorsi e coloro i quali erano rimasti intrappolati nell’involucro del dirigibile. Nonostante le rimostranze del generale, tutti furono concordi nel lasciarlo partire, avendo dopotutto il maggior numero di ferite. Di lì a qualche ora l’aviatore sarebbe tornato a prendere l’altro ferito con la gamba rotta. Il fatto di essere stato tratto in salvo per primo, segnò per il resto della vita il generale in quanto, per il fascismo e per il duce, il fatto di non essere stato l’ultimo ad essere tratto in salvo, macchiò di disonore e di vigliaccheria tutti gli italiani.

La seconda volta l’atterraggio non fu leggiadro come il precedente, ma disastroso, l’aereo cappottò e si impuntò sul ghiaccio. Dopo il primo momento di sgomento e rabbia ed un pasto poco parsimonioso, decisero di spostare la tenda sotto l’aereo per rendersi più visibile e perché il pack sotto la tenda si andava via via sgretolando; le assi in legno delle ali dell’aereo furono smantellate e sistemate sotto la tenda per isolarsi dal freddo.

Per un’altra quindicina di giorni scese una fitta nebbia che non permise agli aerei di vedere la tenda ed atterrare, nebbia che fece alzare la temperatura e rese ancora più pericoloso il pack. Alla fine arrivò un aereo svedese a recuperare Lundborg e, nonostante le rassicurazioni di tornare, nessuno lo rivide più.

E’ di questo periodo un inaspettato bagno nell’acqua ghiacciata di un superstite e di un orso che si mise a dormire accanto a Biagi che dormiva nel sacco a pelo, probabilmente più infreddolito che affamato: la fortuna fu dalla sua parte e non fece la stessa fine del suo predecessore, riuscendo a fuggire di corsa.

In ogni caso, oramai, tutte le speranze dei naufraghi erano riposti nell’arrivo della rompighiacci russa Krassin.

La sera, alla radio, si ricevevano tutti gli aggiornamenti sugli sforzi fatti per recuperare gli italiani, delle persone e degli apparecchi dispersi, dei tentativi falliti, della lentezza del Krassin, dello stesso Krassin che, il 13 luglio, aveva recuperato due dei tre italiani che si erano avventurati alla ricerca dei soccorsi e, mentre si gioiva di questa notizia, sentirono vicinissime le sirene della rompighiacci che si avvicinava.

Portati a bordo, nel decidere il da farsi, si diede priorità al recupero di altre persone che erano cadute nella ricerca e che ora aspettavano a loro volta i soccorsi.

L’avventura era finita, si ritornava con calma in patria.

"Il salvataggio delle otto persone dell’equipaggio dell’Italia, se è stato il risultato di mirabili sforzi e d’una concatenazione di miracolose circostanze, è però anzitutto un miracolo compiuto dalla radio” – Umberto Nobile














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